IX febbraio Mazzini riferimento indispensabile per l’indipendenza Deve essere chiaro che noi possiamo celebrare il Centocinquantenario dell’Unita nazionale soprattutto alla luce dell’esperienza della Repubblica Romana, la cui Costituzione fu approvata il 9 febbraio del 1849. Fu grazie a quei giorni che Garibaldi poté dimostrare al mondo le sue qualità militari, tenendo testa e mettendo in fuga le truppe francesi, e fu in quel momento che Mazzini venne riconosciuto come il simbolo vivente dell’indipendenza della patria. E’ anche vero che in quell’esperienza nacque il contrasto fra Mazzini e Garibaldi perché il primo, per ragioni politiche, preferì affidare ufficialmente il comando della difesa di Roma ad un nobile militare romano, creando non pochi problemi operativi. Ciononostante Garibaldi non smise mai di guardare a Mazzini come al punto di riferimento di ogni moto rivoluzionario in Italia. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una corrente storiografica revisionista sul Risorgimento che ha cercato di colpire entrambi i principali protagonisti della Repubblica Romana. Mazzini è stato in particolare bersaglio di storici di professione, ma anche di molti dilettanti da strapazzo, lesti nel sottolineare i suoi presunti fallimenti. Questa bella schiera dimentica un punto essenziale della lotta d’indipendenza nazionale: e cioè che l’esperienza della Repubblica romana è alla base dell’azione dei mazziniani, i quali diedero il via all’insurrezione della Sicilia. Erano Rosolino Pilo e Francesco Crispi: senza costoro Garibaldi non si sarebbe mosso da Quarto con i suoi Mille. E’ anche vero che la storia del Risorgimento va focalizzata meglio: più dei Mille, contribuirono i mazziniani siciliani alla liberazione d’Italia. E, se il re non avesse fermato Garibaldi a Teano, avremmo avuto un’altra storia ancora da scrivere e - oggi - da commentare. Gli storici giudicano i fatti necessariamente dalle loro biblioteche: e così alcuni fra loro si sono precipitati a sottolineare una presunta viltà di Mazzini, che mandava gli altri a morire al suo posto per le sue idee. Eppure Mazzini, quando la Repubblica romana viene travolta, non fugge. Mazzini resta a Roma, ben in vista per le pubbliche vie, aspettando che qualcuno gli desse la morte. Mazzini non muore per la semplice ragione che il papato, come l’imperatore di Francia, temono la forza di un martire rispetto a quella di un vinto. Forse sbagliarono i conti: quel vinto oggi vince. Abbiamo un’Italia unita e una Repubblica. E’ vero invece che questa Italia unita e la Repubblica ancora non sono mazziniane. Come non era certo mazziniana neppure la Costituzione del 1948. Nel processo di formazione unitaria di una nazione sono tante le scorie che ci trasciniamo dietro e che riemergono rallentando il passo. Il fascismo forse fu la più inquietante di tutte. La complicità della monarchia con il fascismo ancora più devastante, come devastante la fuga del re. Ciò che oggi preoccupa è la rimozione e la banalizzazione di quelli che pure sono passaggi essenziali della nostra storia patria. Il giudizio è ancora controverso a riguardo. Il capo dello Stato renderà omaggio alla figura del re Vittorio Emanuele II: è un gesto dovuto per il contributo di casa Savoia alle ragioni dell’indipendenza. E pure noi non dimentichiamo che quel re voleva spazzare via alla prima occasione utile quella che considerava la feccia mazziniana. Ci consola invece che siano stati spazzati via gli eredi del re. Vogliamo ricordare anche la figura del liberale Alexis de Tocqueville, ministro degli esteri di Napoleone Terzo. Egli dovette penare non poco per spiegare al Parlamento francese le ragioni dell’intervento a Roma: addusse allo scopo le violenze dei mazziniani consumate contro i cittadini cattolici. Nemmeno i più cattolici fra i francesi gli credettero. |